articolo a cura di Claudio A. Lombardo
Laureando in Scienze dell'Alimentazione e Gastronomia
Introduzione
Eccesso, sovrabbondanza, sproporzione, dismisura, eccedenza, termini che in qualche modo sembrano appartenere all'epoca contemporanea, soprattutto quando si parla di alimentazione.
Comprendere particolari comportamenti del passato, innegabilmente, ci suggerisce le motivazioni che risiedono dietro i comportamenti del presente, come nel caso dell’eccesso alimentare, un termine che nel corso della storia ha subito un aumento significativo della frequenza: in passato vissuto in sottotraccia, attualmente caratterizzato da così tanta ridondanza da essere combattuto con le strategie più diaboliche che l’epoca contemporanea possa offrire: la restrizione calorica.
Il comportamento che spinge all'eccesso alimentare non è soltanto un prodotto biochimico umano ma un atteggiamento filtrato dal valore, dalla credenza e dal simbolo, aspetti che manipolano l'alimentazione per ottenere risultati che soddisfino i bisogni e desideri umani.
La misura della deviazione, di epoca in epoca, esplicitamente o implicitamente, di fatto è variata
soprattutto in riferimento all'accessibilità al cibo.
L'eccesso alimentare si attesta - non solo come un insieme selezionato di stili e condizioni di vita che differiscono - piuttosto in un “fascio” di atteggiamenti e abitudini congruenti dall'antichità alla
modernità.
Il cibo può essere definito come il materiale nutritivo “preso” da un organismo per la crescita, lavoro o riparazione e per mantenere i processi vitali.
La quantità di cibo viene regolamentata dal senso comune o dalla scienza per garantire lo stato di salute e la sicurezza organica; diversamente, con l'eccesso, violando i “processi normativi” dell'organismo, si traduce in contaminazione organica.
A qualunque occhio è evidente che l'eccesso alimentare e l'accessibilità al cibo in qualche modo sono correlati. Ma di preciso, come?
Quale significato dietro l'”economia” del corpo che viene modificata dalla scarsità o dall'abbondanza di cibo?
Gli eccessi alimentari nell'antichità
La maggior parte delle abitudini alimentari nelle civiltà antiche sono familiare a noi attraverso gli studi di archeologi, zoologi, botanici e geografi (Waterlow, 1989).
Si comincia ad apprezzare la complessità del campo quando si riconosce che le sostanze chimiche alimentari possono interagire con i fluidi corporei e altri componenti della dieta e che tali interazioni possono avere una moltitudine di effetti, benefici o dannosi (Food and Nutritional Toxicology, 2004); ma, soprattutto, la precitata complessità, in quanto tale, non si limita all'aspetto meramente biologico del cibo.
Il linguaggio del cibo non può prescindere ‐ a differenza dei linguaggi verbali ‐ dalla concretezza dell’”oggetto”, dal valore semantico intrinseco, in qualche modo predeterminato, dello strumento di comunicazione (Montanari, 2004).
La CULTURA del cibo è innanzitutto SIMBOLO, dal più umile (Gola contro astinenza / Cibi da ricchi e cibi da poveri / ecc.) all'eleganza ostentata e al lusso sfrenato (il «banchetto»). (Anche qui parliamo di storia: nel dizionario etimologico - di Ernout e Meillet - la parola luxuria è fatta derivare da luxus, inteso come eccesso e, in modo specifico, "eccesso nel modo di vivere". Il suo significato sarebbe quindi proprio quello di sovrabbondanza e lusso; Ernout, Mellet, 1959).
In verità Orazio incitava a seguire lo stile della moderazione e dell’elegante semplicità, mai dell’eccesso e della sregolatezza messi in scena nei banchetti imperiali.
Carpe Diem, quam minimum credula postero Orazio (I sec. a.C.) - che riprende da un certo punto di vista la locuzione latina Memento mori - è un esempio di questa filosofia che invita a godere del presente senza preoccuparsi del domani.
«Singulae libidines, voluptates, appetitus ciborum exquisitorum, gula, voracitas»: oltre che in Seneca, lo si ritrova in Aulo Gellio, Varrone, Sallustio e in tutti si riferisce al desiderio smodato di cibi deliziosi, contrapposto alla moderazione, proposta come “modello”. Ad esempio, nella Guerra Giugurtina Sallustio dice dei Numidi, che mangiavano per fame e bevevano per sete, «non per libidini atque luxuriae» (Mortillaro, 2012).
Excursus novecentesco
La necessità di "mangiare di più"; per prevenire le carenze nutrizionali divenne particolarmente evidente durante la Seconda guerra mondiale (1939-45), quando c'era un gran numero di militari di leva che rivelava di soffrire di uno stato nutrizionale povero.
Le linee guida della dietetica sviluppate durante e subito dopo quel periodo continuarono a consigliare alle persone di mangiare più cibi in una maggiore varietà.
Dal 1958 al 1979, ad esempio, il sistema alimentare dell'USDA (United States Department of Agriculture;) era noto - informalmente - come «i quattro di base», consigliano alle persone di mangiare un numero uguale di porzioni al giorno di alimenti provenienti da quattro gruppi, presentati e illustrati nell'ordine: carne, latticini, frutta e verdura e cereali.
Quindi, per circa settant'anni, le agenzie federali degli Stati Uniti hanno promosso diete che hanno sottolineato il consumo di alimenti da fonti animali, suggerendo di mangiare cibi di tutt'e quattro i
gruppi, senza rendere una distinzione tra la qualità di alimenti all'interno o tra gruppi.
A partire dalla metà degli anni '50, gli scienziati, sempre più numerosi, hanno riconosciuto che le malattie croniche avevano sostituito le condizioni di carenza poc'anzi riferite.
Alla fine degli anni '70, raccomandazioni dietetiche federali per la prevenzione delle malattie croniche, al contrario delle carenze, consigliavano agli americani ridurre l'assunzione di energia: grassi, grassi saturi, colesterolo, zucchero, sale e alcol, e di aumentare l'assunzione di cibi contenenti carboidrati complessi e fibre (Nestle, 1999).
Conclusioni
Da queste considerazioni è evidente una certa ciclicità dei comportamenti alimentare: gli eccessi alimentari si attestano come un fisiologico processo legato alla larga disponibilità di cibo nel lungo termine.
D’altronde, una delle principali problematiche della modernità è il senso di crescita economica, che implica chiaramente l'atteggiamento utilitaristico nei confronti della natura. In base all'uso (e all'abuso) di macchine nel capitalismo la modernità sostiene l'accumulo di ricchezza e beni per la soddisfazione di una gamma in continua espansione di bisogni e desideri materiali: per l'ulteriore crescita dell'economia, per aumentare la gamma di scelte dei consumatori e perseguendo così standard di vita sempre più elevati (Ackah, 2014).
Da qui un dato da tenere in considerazione: passato e presente sono dotati della stessa etichetta: gli occhi con cui molti di noi oggi guardano l’eccesso alimentare e ponderale si identificano con gli occhi con cui i romani o i greci osservavano gli etruschi: due visioni speculari.
Claudio A. Lombardo
Bibliografia
1. Ackah, Kofi. "antiquity versus modernity: aspects of lifestyles and life-conditions."; legon journal of the humanities 25.1 (2014): 1-22.
2. Bertelsen, Cynthia D. "taste or taboo: dietary choices in antiquity: by michael beer."; (2011): 613-616.
3. De Cristofaro, Paolo. basi metodologiche dell'approccio psico-nutrizionale. see editrice Firenze, 2002.
4. Ernout – Meillet 1959: a. ernout, a. meillet, dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris 1959.
5. Lombardo, Claudio. La scienza del dimagrimento. Kimerik, 2015.
6. Montanari 2004: M. Montanari, il cibo come cultura, Bari 2004.
7. Mortillaro, M. "La dieta del saggio: una lettura antropologica delle prescrizioni alimentari senecane."I quaderni del ramo d'oro 5 (2012): 123-136.
8. Nestle, Marion. "Animal v. plant foods in human diets and health: is the historical record unequivocal?" Proceedings of the nutrition society 58.2 (1999): 211-218.
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10. Ppress, crc. "Food and nutritional toxicology.";. 2004.
11. Starr sered 1998: s. starr sered, food and holiness: cooking as a sacred act among middle‐Eastern jewish.
12. Waterlow jc (1989): Diet of the classical period of greece and rome. eur. j. clin. nutr. 43(suppl 2), s3 ± s12.
13. Women, «Anthropological quarterly», vol. 61, no. 3 (july 1998), pp. 129‐139.
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