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Immagine del redattoreErika Arena

CONVIVIALITA’: DA SEMPRE SINONIMO DI CUCINA ITALIANA

articolo a cura di Chiara Scatena

Laureanda in Scienze dell'Alimentazione e Gastronomia


La convivialità è un tratto che distingue la cucina Italiana nel mondo. A livello globale infatti l’immagine che rappresenta la nostra gastronomia, in nostro modo di apprezzare il pasto è caratteristico e distintivo. Non si tratta solo di buona cucina, ma di un atteggiamento ospitale che identifica nella condivisione del cibo un momento di unione profonda con i commensali.

Questa peculiarità che ci contraddistingue ha origine circa un secolo e mezzo fa, quando lo scenario europeo dell’alta cucina aveva una personalità tutta francese e i primi ristoranti gastronomici erano caratterizzati da un’atmosfera formale e borghese, infatti il centro della cultura culinaria europea si trovava in Francia. Al contrario l’Italia non si identificava con una storia rispetto ad un centro, la cucina “alta” italiana aveva come modello Bartolomeo Scappi, cuoco famoso nel ‘500 che fu a servizio di personaggi importanti dell’epoca tra cui Papa Paolo III e Papa Pio V. La sua arte risiedeva nella conoscenza delle tecniche culinarie e dei materiali utilizzati e il suo lavoro veniva considerato altissimo artigianato. Ma il modello francese rimase in auge fino ad oltre il XIX secolo, caratterizzato da un centro culinario: Parigi, dove si trovava il cuore pulsante dell’arte di fare e consumare cibo del periodo. La nostra penisola non rispecchiava questo modello, infatti in Italia era la cucina di casa che predominava e la domesticità e il dilettantismo si trovavano in contrasto con il professionismo francese. Inoltre la gastronomia in Italia non aveva un centro, ma era distribuita su tutto il territorio, senza un vero e proprio carattere. Un primo passo verso la popolarità che oggi caratterizza la nostra cucina viene fatto nel 1981 con la pubblicazione di “La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” a cura di Pellegrino Artusi; l’autore compie un’operazione di unificazione della gastronomia italiana attraverso la raccolta di 790 ricette che attraversano la penisola e, ad oggi, è considerato il libro che fonda la cucina italiana moderna. Il manuale si rivolge ad un pubblico borghese femminile e il linguaggio utilizzato è tutt’altro che didattico e formale, viene preferita la lingua che si parla in cucina, quotidiana e domestica.

E’ con la nascita del modello della trattoria e poi delle osterie che il carattere dell’ospitalità italiana si va via via definendo. Nascono infatti nel corso del 1900 diverse guide, tra le quali “Guida spirituale delle osterie italiane” del 1910 di Hans Barth, o ancora “Guida alle osterie d’Italia” del 1991. La crescita della popolarità di

questi luoghi, sommata al successo dell’invenzione della dieta mediterranea nel 1957 da parte del fisiologo americano Ancel Keys, affermano la genesi di un modello nuovo e vincente, quello Italiano, che porta ad un tuttora crescente flusso di persone da ogni parte del mondo a visitare ed apprezzare la nostra penisola.


Ma perché il modello dell’osteria è risultato “vincente”?

Ripercorrendo la storia di questi luoghi è possibile distinguere alcuni tratti distintivi, difatti le osterie sono tradizionalmente a conduzione familiare, dove il carattere domestico predomina e dove la cucina è generalmente gestita da donne.

L’ambiente è informale, casalingo e conviviale. L’inclinazione ospitale è tuttavia la chiave del successo. “Ospite” deriva dal latino “hospes” ed ha il duplice significato di “colui che ospita” e “colui che è ospitato”. In aggiunta, “ostile” deriva dalla stessa radice, infatti la nozione di ospitalità abbraccia anche l’idea di ospitare il proprio nemico. Pertanto l’ospitalità favorisce la commensalità, la socializzazione e la condivisione. L’espressione convivio veniva infatti già utilizzato dai romani, “cum vivere” come concetto che supera l’idea di mangiare insieme e abbraccia quello di vivere insieme qualcosa, convivere. Ed è così che le osterie e questo tipo di partecipazione condivisa hanno reso questi luoghi celebri: perché spesso la condivisione rende un’esperienza piacevole.


Nella società contemporanea è importante ricordare questa storia, perché la tendenza alla vita frenetica, che spesso costringe al consumo individuale del pasto e alla condivisione virtuale potrebbero concorrere alla perdita di questo importante aspetto. Se da una parte la tecnologia ci permette di essere sempre collegati, dall’altra rischia di minare la pratica dell’autenticità e il concetto primordiale di commensalità stessa. Oggi la virtualizzazione sta cambiando il concetto di

condivisione, ad anche la sociologia si occupa di questo problema; ecco perché è nato il termine Social Eating, sostenuto anche da molte aziende che incoraggiano i dipendenti a condividere il momento della pausa pranzo.

E’ importante tenere a mente che la tavola è il luogo in cui si condividono momenti importanti e il convivio è una circostanza che unisce e cristallizza relazioni, è per questo che dovremmo cercare di rendere i momenti dei pasti occasioni di condivisione.


Chiara Scatena


BIBLIOGRAFIA:

Nicola Perullo, “La cucina è arte?”, 2017, Carocci Editore, Roma

A. Revelli Sorini e S. Cutini, “Manuale di Gastrosofia”, 2019, Alieno Editrice, Italia


SITOGRAFIA:

https://www.ilgiornaledelcibo.it/mangiare-insieme-fa-bene/

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