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DIETA E CAMBIAMENTI CLIMATICI

Articolo a cura di Jacopo Cioce

Laureando in Scienze dell'Alimentazione e Gastronomia


L’urgenza e la necessità di un cambiamento nel nostro modo di vivere per non incorrere in un punto di non ritorno in cui il pianeta diventerà per la maggior parte inospitale, se non ostile, è ormai riconosciuto da tutti. Meno diffusa però è l’idea che la nostra dieta abbia influenza sul riscaldamento climatico. Nonostante le informazioni riguardo al rapporto tra agricoltura ed emissioni di gas serra si stiano gradualmente diffondendo anche al di fuori della comunità scientifica, si pone ancora troppo poco l’enfasi sulle scelte alimentari.

Il cibo è simbolo e, in certi casi, emblema di una certa cultura o identità, dice molto di noi e di come (e dove) ci poniamo nel mondo. Proprio a causa di questa componente identitaria, modificare anche di poco le proprie abitudini alimentari, risulta molto complesso. Ecco perché la questione dell’incidenza dell’agricoltura nel cambiamento climatico è sempre stata trattata con molta delicatezza anche all’interno dei vari gruppi ambientalisti.

A supportare tutto ciò, c’è l’evidenza per cui la maggior parte delle emissioni di gas serra (soprattutto metano e protossido di azoto, sostanze fino a ottantasei volte più efficaci nell’intrappolare calore della CO2) provengono dall’allevamento del bestiame. Di tutti gli alimenti consumati in occidente, ce ne sono pochi importanti quanto carne e derivati, probabilmente nessuno così profondamente insito nella nostra cultura. Si potrebbe obiettare che l’Italia è la patria della Dieta Mediterranea, in cui carne e prodotti derivati rivestono un ruolo minimo. Ma questo si poteva riscontrare negli anni ’60-‘70 (gli stessi in cui vennero effettuati gli studi che portarono alla

definizione di “Dieta Mediterranea” da parte di Ancel Keys) in cui l’influenza anglo-americana nelle abitudini alimentari non era così prevalente come oggi. A supporto della mia affermazione si può citare uno studio, scelto tra i tanti con risultati simili, dell’Istituto Superiore di Sanità nell’ambito dell’indagine “Health Examination Survey”, condotto dal 2008 al 2012, in cui è emerso che il consumo di cereali, patate e legumi rispetto al modello degli anni ’60 si è ridotto della metà, mentre il consumo di carne, formaggi e latticini è più che raddoppiato.

Questa piccola introduzione serve ad entrare nel cuore del discorso, ovvero: come modificare la nostra dieta in modo da ridurre l’impronta carbonica? Esistono modifiche realmente significative se effettuate su una scala esponenzialmente più grande?

La risposta alla prima domanda è semplice: dobbiamo mangiare molta meno carne e passare ad una dieta cosiddetta “plant-based”, composta cioè da cereali integrali, ortaggi freschi e legumi. Il termine semplice non si riferisce alla facilità con cui si può eseguire questo tipo di svolta, che come abbiamo già detto risulta molto complesso, quanto piuttosto alla sua elevata accessibilità rispetto alle azioni necessarie per convertire la rete energetica mondiale o per introdurre una carbon tax con la contrarietà di lobby molto potenti. Si tratta infatti dell’unica azione che porterebbe ad una riduzione significativa delle emissioni applicabile fin da subito, senza necessità di alcun tipo di infrastrutture o lunghe discussioni fra diplomatici. Solamente rinunciando a mangiare carne per due dei tre pasti principali ogni giorno nei paesi occidentali industrializzati, si otterrebbe all’incirca la stessa impronta climatica di una dieta vegetariana. Non è perciò necessario eliminare completamente carne e derivati per contribuire a mitigare le emissioni, il che rende la questione identitaria meno forte.

Attuare questo piccolo grande sforzo quotidiano è il modo più semplice ed efficace che abbiamo come individui per contrastare il cambiamento climatico, ancora più che non prendere l’aereo o non possedere una macchina (due aspetti per altro molto difficili da ottenere).

Qui si arriva alla seconda questione da affrontare, ovvero se sia significativo oppure no una tale modifica della nostra dieta su scala globale, se ne vale davvero la pena di ridurre il consumo di alimenti così amati. Ovviamente la risposta è si, anzi, uno studio del Worldwatch Institute del 2009, Livestock and Climate Change, arriva a sostenere che l’allevamento del bestiame sia responsabile per il 51% delle emissioni annuali di gas serra a livello globale. Questo rapporto succedette Livestock’s Long Shadow, autopubblicato dalla FAO in cui si afferma che il settore zootecnico contribuisce per il 18% delle emissioni globali. Quale che sia la reale portata delle emissioni dovute all’allevamento (probabilmente una cifra che si attesta a metà fra le due), si può facilmente intuire che ridurre significativamente il consumo di carne o eliminarlo completamente è una delle azioni

più concrete ed efficaci attuabili a livello individuale.


Questo cambiamento nel modo di alimentarsi dei paesi occidentali industrializzati non è auspicabile solamente in termini di mitigazione dei cambiamenti climatici, ma risulta connesso anche a: una

migliore salute in termini generali, poiché vi è ormai un consenso unanime nella comunità scientifica nel dire che la carne sia dannosa con questa frequenza di consumo; una riduzione del tasso di obesità che si sta progressivamente innalzando nei paesi occidentali e che sarà probabilmente la patologia più diffusa dei prossimi anni; la possibilità di combattere la malnutrizione nei paesi più poveri ed in generale creare un’alimentazione più equa a livello globale.


“Siamo portati a definirci attraverso quello che abbiamo: proprietà, soldi, opinioni e like. Ma a

rivelare quello che siamo è quello a cui rinunciamo.”


Jacopo Cioce


BIBLIOGRAFIA

J .S. Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi, Milano, Ugo

Guanda Editore, 2019


SITOGRAFIA

http://www.cuore.iss.it/prevenzione/ComportamentiAlimentariItalia

https://www.ipcc.ch/srccl/chapter/chapter-5/

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