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LA SOGGETTIVITÀ DEL GUSTO

articolo a cura di RITA MAURO

Laureanda in Scienze dell'Alimentazione Gastronomia


Quando si parla di gusto emerge inevitabilmente la questione della soggettività sottesa all’esperienza gustativa, secondo cui “de gusti bus non est disputandum” (sui gusti non si può discutere), dal momento che implicando una componente di piacere individuale, il gusto tradizionalmente inteso non possa raggiungere quella purezza oggettivabile attribuita in via esclusiva ai sensi distali (vista e udito). Per chiarire tale problema bisogna ritornare alla disputa settecentesca della qualificazione ontologica della bellezza.

Secondo la scuola “Platonica” la bellezza deve essere colta in maniera del tutto razionale poiché dotata di alcune non ben specificate qualità oggettivamente rilevabili. Rivelativa dell’incerto e sfuggente della bellezza è l’espressione francese “je ne sais quoi”* di cui sarebbero dotati gli oggetti belli, una qualità non definita . In contrapposizione a tale pensiero si pone l’empirismo inglese che destituì la bellezza del suo ruolo di ideale oggettivo e ricondusse il giudizio sul bello ad un’esperienza tutta soggettiva. Alla bellezza non viene riconosciuta la benché minima valenza oggettiva, poiché si tratta di un idea prodotta dall’intelligenza che riunisce una varietà di idee di ampia natura, ma soprattutto si tratta di un idea priva di un corrispettivo empirico cha possa impressionare i nostri sensi, accompagnata da una sensazione di piacere e/o dispiacere anch’essa dipendente dal soggetto percipiente. L’elemento piacevole continua a proporsi come il discrimine

per distinguere tra esperienze private , non meritevoli di porsi a oggetto di dibattito, ed esperienze pubbliche, che condividono qualità oggettive razionalizzabili entro un orizzonte filosofico. La bellezza è declassata al mero appagamento del soggetto che la esperisce , ma ciò che ci interessa è notare come il godimento individuale venga sempre visto quale componente nociva per l’esercizio della filosofia, in quanto troppo legata al singolo che ne impedisce una sistematizzazione razionale ed oggettiva.


Gli empiristi inglesi ( Locke, Hobbes, C. Korsmeyer) cancellarono la distinzione tra senso del gusto e gusto estetico relativizzandoli entrambi alla soggettività del fruitore, affatto diverso fù invece l’approccio kantiano, volto a recuperare la distinzione tra l’universalità del bello e l’individualità del piacevole e a sancire la separazione fra queste due modalità di intendere il gusto. Scopo della Critica del giudizio è quello di dimostrare come “nel definire bella una cosa, si esprime il proprio piacere e, tuttavia, si presuppone che anche tutti gli altri spettatori possano e debbano provar piacere per l’oggetto percepito”** .

Kant nel tentativo di risolvere quella che presenta come l’antinomia del gusto si rende conto che il gusto possiede uno statuto alquanto ibrido e difficilmente collocabile “Tutte le facoltà e capacità dell’anima possono infatti essere ricondotte a queste tre, che non si lasciano più a loro volta derivare da un fondamento comune: la facoltà di conoscere, il sentimento del piacere e dispiacere e la facoltà di desiderare, mentre il giudizio di gusto- dall’analisi kantiana- si configura come una sorta di unione tra facoltà di conoscere e il sentimento di piacere e dispiacere, un qualcosa che sta a metà strada tra intelletto e ragione in quanto questi giudizi non

contribuiscono alla conoscenza delle cose ma appartengono alla facoltà conoscere e rilevano un relazione di questa facoltà col sentimento di piacere e di disgusto. Proprio tale indissolubile coinvolgimento tra bellezza e piacevolezza ha spinto gli empiristi ad accomunare giudizi di gusto e giudizi del gusto, declassandoli alla soggettività del fruitore.


* Questo stesso modo di dire possiede un corrispettivo italiano dell’espressione riferita ad un non so che proprio di ciò che è bello, che lo traduce in maniera letterale mantenendo il medesimo significato di qualità.

** I.Kant,Critica del Giudizio,trad. it. A.Gargiulo, Editori Laterza,Bari 1997,p.23.


RITA MAURO

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