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Perché è sbagliato perdere peso nel minor tempo possibile?

articolo a cura di Claudio A. Lombardo

Laureando in Scienze dell'Alimentazione e Gastronomia


Se qualche volta abbiamo seguito una dieta, abbiamo anche compreso quanto il corpo lavori per frustrare ogni sforzo di ridurre l’adiposità. Il peso corporeo nell’uomo adulto, così come quello degli animali superiori, tende a rimanere stabile per lunghi periodi, nonostante variazioni quotidiane dell’introito calorico e della spesa energetica, rivelando così l’esistenza di sistemi di controllo a breve e a lungo termine (Edholm, 1973). Esiste un meccanismo legato all’“abitudine biologica” del corpo (in termini di peso interiorizzato) noto con il termine di set point omeostatico (o fat point se ci riferiamo alla massa grassa). Infatti, da ricerche effettuate, è possibile indurre nel ratto una perdita di peso riducendo drasticamente il suo apporto calorico. Tuttavia, non appena messo di nuovo in condizione di accedere liberamente al cibo, l’animale mangerà in eccesso fino a

ripristinare completamente i livelli iniziali di grasso corporeo. Ma ciò è vero anche nel caso opposto: gli animali sottoposti ad alimentazione forzata per incrementare la loro massa grassa, una volta messi in condizione di regolare da soli la loro dieta, mangeranno meno fino al raggiungimento dei livelli di grasso normali. L’idea che il cervello tenga sotto controllo la quantità di grasso corporeo – in cui per anni è stato abituato e agisca per “difendere” dalle perturbazioni le riserve energetiche - prende il nome di ipotesi lipostatica. L’associazione tra grasso corporeo e comportamento alimentare suggerisce l’esistenza di una forma di comunicazione dal tessuto adiposo al cervello (Bear et al., 2007). Si pensa, dunque, che esista una sorta di regolazione del peso corporeo intorno ad un valore di riferimento o almeno ad un range di peso fisso, che varia

a seconda degli individui, ma che si mantiene in modo relativamente costante per ogni singolo individuo (Kessey, 2002).


Risvolti negativi dell’eccessiva restrizione calorica

Le persone in sovrappeso, quando iniziano un trattamento dietetico, desiderano perdere la maggior parte del peso nel minor tempo possibile, ma nel 50% dei casi questo impegno termina dopo

appena due mesi dall’inizio della dieta (L. Letizia, 2011). Questo è dovuto soprattutto all’aumento del livello di cortisolo che si riscontra nei soggetti che si sottopongono a dieta (Tomiyama et al., 2010). Nondimeno fare pressioni sui pazienti per motivarli alla perseveranza nella dieta determina una spaccatura tra coloro che ancora resistono e coloro che sono più

disponibili al cambiamento e sembra produrre un maggior drop-out (Treasure et al., 2006).

Ancel Keys (Keys et al., 1950) valutò gli effetti della restrizione alimentare su un campione di 36 volontari sani che assunsero per 6 mesi una dieta ipocalorica contenente la metà delle calorie abitualmente ingerite. Dopo 6 mesi la perdita di peso media nelle persone che partecipavano allo studio fu del 25% come era prevedibile. Ma i risultati più interessanti non furono legati alla perdita di peso ma ai sorprendenti comportamenti e ai sintomi che si manifestarono in tutti i volontari, tra cui modificazioni emotive e sociali, quali ansia, depressione, irritabilità, labilità emotiva, episodi psicotici, cambiamenti di personalità, isolamento sociale, evitamento, disturbi del sonno, diminuzione della capacità di concentrazione, diminuita capacità di pensiero astratto, apatia, inusuali abitudini alimentari e via dicendo (Ruocco & Alleri, 2006).

Garner e Wooley (Garner & Wooley, 1991) propongono uno slittamento di sfondo: «vi sono due innegabili fatti relativi al trattamento dietetico dell’obesità. Il primo è che virtualmente tutti i programmi sembrano in grado di documentare moderati successi nel promuovere una perdita di peso a breve termine. Il secondo è che virtualmente non vi è nessuna evidenza circa la possibilità che gli individui riescano a mantenere una significativa perdita di peso nel tempo e, se da un lato sono evidenti i rischi fisici correlati all’obesità, è spesso difficile distinguere, sul piano emozionale, tra i sintomi psicologici che motivano all’effettuazione della dieta e quelli derivati dall’effettuazione stessa della dieta».

Proprio le diete ipocaloriche, “scodellate” dal mondo scientifico e dalle tante proposte commerciali che promettono risultati immediati, sembrano essere responsabili del circuito restrizionedisinibizione dal comportamento alimentare inadeguato che da esse scaturisce: il “Wight-Cycling Syndrome” (restrizione - disinibizione – colpa/allarme – restrizione) (Beck, 2008). È innegabile che i fattori centrali di questa catena (disinibizione e senso di colpa) creano profondi scompensi nella nostra attività neurotrasmettitoriale. All’opposto, ma con un effetto identico, il controllo e l’inibizione. (Per raggiungere un equilibrio neurotrasmettitoriale sembra sia indispensabile un altrettanto equilibrio psicologico alimentare. Ma da cosa dipende realmente?)

Nei bambini obesi in terapia dietologica si sono osservati livelli di psicopatologia ansiosa o depressiva significativamente più alti (37,3%) rispetto a quelli non sottoposti ad alcun trattamento (23%) (Van Vlierberghe et al., 2009). Tale dato potrebbe sostenere l’ipotesi del possibile effetto iatrogeno di incongrue terapie dietetiche.


Conclusioni

Non sembra concludersi la fanciullezza (così come oggi la si conosce) dell’assolutizzazione di una scienza che ha ancora tratti profondamente lacunosi: studi di follow-up a lungo termine sul trattamento dell’obesità indicano come il 90- 95% di coloro che perdono peso lo riacquistano entro pochi anni (Garner, Wooley, 1991), a volte anche con gli interessi (Sarlio-Lahteenkorva et al.,2000). Si procede comunque, riduttivamente e diversamente, oltre. Tuttavia, sembra che una prospettiva “sistemica”, ovvero il coinvolgimento di più fattori (approccio comportamentale al cibo, gestione dello stress, ri-equilibrio dei ritmi circadiani, etc.) durante il processo dimagrante rappresenti rappresenti la strada più sicura da seguire.


Claudio A. Lombardo


Bibliografia

1. Durnin, J. V. G. A., et al. "How much food does man require?." Nature 242.5397 (1973): 418-

418.

2. Bear, Mark F., Barry W. Connors, and Michael A. Paradiso, Neuroscienze. Esplorando il

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3. Kessey, R.E., A set-point model of body wight regulation, in Fairburn e Brownell, 2002

4. Letizia, Laura, 1. Obesità: definizione di un problema. Laura Letizia, Paola Gremigni. Il

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5. Janet Treasure, Ulrike Schmidt, Eric van Furth, I disturbi dell’alimentazione, Il Mulino, 2006.

6. Keys A., et al., 1950, The biology of human starvation, Minneapolis, University of Minnesota

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7. Alleri, Pietro, and Raffaele Ruocco, Il «peso» delle emozioni. Conoscere, affrontare e vincere

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8. Garner, David M., and Susan C. Wooley, Confronting the failure of behavioral and dietary

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9. Sarlio-Lahteenkorva S., Rissanen A., Kaprio J. (2000), A descriptive study of weight loss

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10. Van Vlierberghe L., Braet C., Goossens L., Mels S., (2009) Psychiatric disorders and

symptom severity in referred versus non-referred overweight children and adolescents. Eur.

Child Adolesc. Psychiatry, 18(3): 164-73.

11. Beck, Judith S., Dimagrire con il metodo Beck. Impara a pensare da magro. Edizioni Erickson,

2008.

12. Tomiyama, A. Janet, et al., Low calorie dieting increases cortisol. Psychosomatic medicine

72.4 (2010): 357.

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